Esattamente 50 anni fa, nel luglio 1968, cominciava la grande avventura di Giovanni Ermiglia. Dalla sua decisione di andare in India, gesto impensabile da parte di una persona di 63 anni, fino allora dedita esclusivamente alla cultura, sarebbe nata una grande impresa concreta, realizzata in un contesto difficile e drammatico come quello indiano.
Una svolta nella vita, la constatazione dell’inutilità dell’attività intellettuale di fronte agli enormi problemi dei paesi in via di sviluppo che allora cominciavano ad affacciarsi sulla scena del mondo, e quindi la decisione di passare all’azione. E la scelta di dare un contributo nuovo, diverso da quella “beneficenza” dei paesi ricchi, che era il modo consueto di affrontare le crisi umanitarie dei paesi poveri. Ma per fare questo bisognava partire dalla realtà, dall’immersione totale in quel mondo. Il primo viaggio di Giovanni Ermiglia si svolse in modo casuale, senza punti e persone di riferimento prestabiliti, finché avvenne la conoscenza con il movimento gandhiano Sarvodaya e con il movinento Bhoodan (dono della terra) di Vinoba Bhave e l’incontro, in Tamil Nadu, con il giovane attivista S. Loganathan. Allora prese corpo la decisione di concentrarsi sui problemi dei contadini e il progetto di far nascere una prima comunità di villaggio sulle terre donate ai senza terra, utilizzando una prima somma di denaro che Giovanni aveva portato con sé, e in seguito i fondi messi a disposizione dal Movimento Sviluppo e pace di Torino.
“La mia idea era differente– dice Giovanni Ermiglia: invece di un’assistenza paternalistica verso i contadini la presa di coscienza, la responsabilità e l’autodeterminazione dei braccianti senza terra, col tentativo di far emergere un’energia nuova in questa gente, un’energia che aveva nella speranza di un futuro migliore il suo stimolo fondamentale”.
Tutto questo parte da Sevalur, lo sperduto villaggio rurale dello stato meridionale del Tamil Nadu in cui vengono gettate le basi della prima Sarva Seva Farm (Fattoria al servizio di tutti).
Altri villaggi seguono questo primo esempio, fino a dar vita nel 1978 all’Associazione che le riunirà, ASSEFA (Association for Sarva Seva Farms). Tutto è ispirato alla filosofia del pensiero dello stesso Gandhi e del Sarvōdaya, in cui i mezzi sono più importanti dei fini, che dipendono dal “come” si raggiungono. Le “questioni concrete” come strumento, quindi, e non come obiettivo, che rimane invece quello dell’ordine sociale equo e perfetto, incardinato sull’idea del villaggio, vero approdo della filosofia di ASSEFA.
La preoccupazione di ASSEFA, basata sul pensiero gandhiano, è lo sviluppo dell’uomo, e non solo quello della terra. La gente deve partecipare, pensare da sola e diventare responsabile di sé stessa.
Le tappe fondamentali per attuare questo programma sono state:
La chiave di questi successi è stato il lavoro in stretta connessione e con la piena partecipazione dei contadini, che a partire dai loro problemi elaborano e attuano i progetti.
Oggi, a 50 anni dalla sua nascita, ASSEFA deve affrontare nuovi grandi problemi, legati agli enormi cambiamenti in atto nel mondo. Ma il suo approccio non è cambiato e mantiene al suo centro la realizzazione di ciò che dovrebbe essere il progetto di tutta l’umanità: la realizzazione del Sarvōdaya, il benessere di tutti.